Fedele Cirone

Poiché la fonte più completa di informazioni su Fedele Cirone è rappresentata dalle pagine che Vincenzo Severini gli dedicò nei suoi Moranesi illustri del XIX secolo, riportiamo quelle integralmente (l’edizione elettronica completa dell’opera del Severini, non più di facile reperibilità, e non molto leggibile a causa dei caratteri minuscoli, potrà a breve essere richiesta a TdS).


Quando agli inizi di giugno 1848 gl’insorti calabresi, condotti da Domenico Mauro, si sbandarono in seguito all’uccisione del fratello di lui, Vincenzo, nelle pianure di Campotenese; le soldatesche borboniche in numero di parecchie migliaja, quasi tutti lazzaroni napoletani, sotto il comando del generale Lanza, si riversarono su Morano, avendo il mandato di saccheggiare, incendiare ed uccidere. Di quei lazzaroni affamati, più infelici che cattivi, alcuni presero subito alloggio nelle diverse case di Morano, altri si messero a scorrazzare per le vie dell’abitato, procacciandosi il necessario colla violenza e la forza. Si era sull’imbrunire del 2 luglio, quando il trentenne calzolajo Raffaele Cirone, per sottrarre alle loro rapine una sua botteguccia, posta all’angolo della Piazza Maddalena, si affrettava a chiuderla. Alcuni di essi glielo impedirono: egli si oppose; e tra la violenza e la resistenza quei manigoldi, messegli le mani addosso, lo rifinirono a calci di fucile e a colpi di bajonetta. Sopraggiunge di lì a poco il padre, Francesco, e, trovato il figlio orrendamente deturpato e ancora sanguinante, cominciò a piangere, a gridare e a dare nelle smanie; e allora i carnefici di Raffaello, saputolo dell’istessa famiglia, si gettarono su di lui, e gli fecero subire la stessa sorte. Tale tremenda scena di sangue agì potentemente sul morale della misera vedova, Teresa Paladino, che morì di dolore dopo due mesi; né poté mai cancellarsi dalla memoria dei tre figli superstiti, Giovanni, Leonardo e Fedele Cirone. Essi però, piuttosto che accasciarsi sotto l’immane dolore, trassero da esso energia e stimolo a ben fare per la salvezza della famiglia e per la redenzione d’Italia. Il maggiore dei tre fratelli, Giovanni, ordinato prete e acquistata in Napoli una soda coltura, andò ad aprire scuola a Corigliano, ove fu preso subito come ajo della famiglia Compagni, e vi educò tutti i figli del vecchio Barone. Intanto quello che guadagnava poteva destinarlo tutto all’educazione e al sostentamento de’ suoi fratelli, il primo dei quali, dopo aver fatto i primi studi a Morano, sotto il celebre latinista Russo, suo congiunto, e sotto il Salvati, partì per Napoli. Quivi si laureò in ingegneria, lavorò per vent’anni come ingegnere governativo nella costruzione delle ferrovie meridionali e calabro-sicule, e, vittima del lavoro, morì in Napoli il 1879, compianto da tutti gli amici e da quanti lo conoscevano. Non minor fortuna ebbero le assidue fatiche e i severi studi del terzo dei superstiti, che, si era laureato in legge, coltivando specialmente con amore le scienze economiche e gli studi sociali. Essendo nato il 20 ottobre 1833, Fedele Cirone aveva appena 15 anni quando successe l’orrenda catastrofe del padre e del fratello; onde, scosso a quella triste scena di sangue, si fa più tardi a considerare le cause di tanta miseria intellettuale e morale della patria sua. Se Niccola Leoni ha il coraggio di spezzare una lancia contro la tirannide borbonica e la schiavitù nelle nostre provincie, il Cirone, uomo affatto moderno, ficca addirittura il coltello anatomico sul corpo esulcerato della bassa Italia, e scrive un piccolo volume sulle Piaghe che più incancreniscono la prosperità dell’Italia meridionale. Egli nel fare la diagnosi di questo corpo ammalato trova che quattro sono le piaghe principali che lo travagliano e che ne impediscono anzi ne annullano la prosperità: l’ignoranza, la mancanza di vie di comunicazione, la immensa prosperità territoriale nelle manimorte e la mancanza di bonifiche. Di ciascuna di queste piaghe indaga le cause, e con grande competenza propone dei rimedi, esplicando tutta la sua erudizione in materia di economia politica e sociologia, e precorrendo in tali scienze i giovani economisti e sociologi contemporanei del Mezzogiorno. È perciò che, sebbene il suo libro fosse scritto da mezzo secolo e parecchie delle riforme e dei provvedimenti che egli propugna sono già attuati, molte pagine di quel volume palpitano ancora di attualità, e non perdono d’importanza, tutto che i tempi siano progrediti. Mettendo il dito nella piaga dell’ignoranza, il nostro autore fa un quadro vivissimo dell’educazione falsa e punto rispondente ai bisogni della vita che s’impartiva alle nostre tre classi sociali (alta, media e infima) sia nei seminari, sia dai preti e frati addetti all’insegnamento; e discorre della trista influenza che questa falsa educazione esercita sulla religione stessa, sulla morale, sulla politica e sulle industrie, dei mali che ancora perdurano e che di quell’educazione sbagliata sono conseguenza: «I chiercuti, egli dice, altro non hanno insegnato ai discepoli che l’ubbidienza cieca al sovrano assoluto, ed hanno adoperato tutti gli sforzi possibili per disviare l’attenzione dei giovani di rivolgersi sull’esame della sovranità, fulminando anatemi contro gli scrittori di materie sociali, spaventando la gioventù di incorrere anche essa nella scomunica, quante volte le venisse in pensiero di volerli leggere. Dipinsero le loro dottrine come idee sataniche, che tendevano a sconvolgere la società ed a negare l’esistenza di Dio; ed invece l’assuefecero agli studi leggieri, perché capivano benissimo che gli studi profondi l’avrebbero menata alla conoscenza dei veri principii sociali, che avrebbero di certo condotto la demolizione di quell’edificio tirannico, da loro così stupendamente costruito. Hanno cercato di farle abominare quei prodi che si offrirono in sacrificio alla patria ed alla libertà, dandoli a conoscere come ambiziosi e come reprobi. L’accostumarono allo spionaggio, facendo fare i delatori ai compagni di scuola. Con simigliante istruzione il dispotismo non ha avuto alcun bisogno di mascherarsi; il vero governo si diceva apertamente, è l’assoluto, dove il principe è l’adorato padrone e signore, e l’esclusiva sua volontà forma la legge, a cui per comando divino dobbiamo tutti prestare ubbidienza, perché desso è l’unto del Signore, senza che fossimo chiamati a vedere se operi bene o male, perché altrimenti commetteremmo un misfatto di lesa maestà, e meriteremmo non solo gli ergastoli, le segrete, le torture in questa terra, ma anche la dannazione eterna nell’altra! Queste e molte migliaja di altre infamie udimmo dalla stampa, dai pergami, dalle cattedre, dai confessionali e dai tribunali sotto il governo borbonico; ma le sciagure patite, l’esempio degli altri popoli ed il progresso liberale dei tempi presenti ci hanno scosso dalla letargia in cui stavamo, e ci hanno fatto risorgere ad una vita libera per istruirci, moralizzarci e renderci uguali ai tempi in cui viviamo». Ma bisognerebbe tutte trascrivere le stupende pagine di questa prima parte del libro, studiarle e meditarle per sentire tutto l’orrore dei vecchi metodi e dei tempi passati e darsi ragione della bassezza intellettuale e morale delle masse del Mezzogiorno, dell’apatia e del regresso di cui è vittima specialmente la città nostra! Come rimedio a questa piaga il Cirone propone gli studi sociali, scientifici e tecnici a preferenza degli studi classici e ornamentali, mostrandosi in ciò, se non un precursore, almeno un cooperatore dello Spencer: e come provvedimento pratico l’istituzione di scuole professionali a somiglianza di quelle dell’Inghilterra, del Belgio, della Germania, della Svizzera e della Francia: reclamando però la massima libertà nell’insegnamento. Discorrendo della seconda piaga, con calcoli e dati statistici mette in evidenza tutti i vantaggi economici che verrebbero al Mezzogiorno da nuovi sistemi stradali e dalla costruzione di nuovi tronchi ferroviari. Propugna l’apertura di nuovi canali irrigabili e di due canali navigabili: il primo che metta in comunicazione il Tirreno coll’Adriatico, congiungendo il Garigliano colla Pescara per mezzo del lago di Fùcino, e il secondo il Tirreno coll’Ionio, rompendo l’istmo calabro tra S. Eufemia e Squillace. Come compimento di tali lavori poi andrebbero costruiti nuovi porti commerciali, impiantati dei docks, poste nuove linee telegrafiche, migliorato il servizio postale, da affidarsi esclusivamente alle imprese private, e lasciata la massima libertà alla stampa. Precorrendo un provvedimento adottato poscia in parte dal governo italiano, a proposito della terza piaga il Cirone propone che venga sanzionata l’espropriazione terriera dei corpi morali e religiosi nonché l’alienazione dei beni demaniali e comunali. Ché se la proprietà delle corporazioni poteva riuscire di sollievo al popolo in tempi barbari e calamitosi, oggi, che, abolito il feudalesimo, sono eguagliate le classi e mutati i tempi, l’esistenza di tale proprietà non servirebbe che a produrre il disboscamento delle montagne, a sfruttare e far deperire i terreni in pianura; i quali allora si coltivano bene, quando diventano proprietà privata e individuale, o si danno ad enfiteusi. Egli parte dal principio che la proprietà pertinente ad un corpo morale non può mai essere ben coltivata, perché l’amministratore non vi ha interesse proprio, e, invece di badare ad apportarvi qualche miglioramento, ne affretta il deperimento, cedendo alle tendenze d’amicizia e di favore. Né il nostro economista vuol risparmiata dai suesposti provvedimenti la proprietà degl’istituti di beneficenza. Egli con un sottile ragionamento, e giovandosi a tempo anche di dati statistici, dimostra che tali stabilimenti, togliendo all’uomo la responsabilità delle proprie azioni, favoriscono l’ozio, la crapula e il mal costume. L’istituzione delle ruote e degli stabilimenti per l’infanzia abbandonata (osserva a questo proposito), più che a far diminuire gl’infanticidi e la morìa dei bambini, ha moltiplicato il numero degli esposti, le unioni illegittime e i matrimoni degl’indigenti. E però, più che l’impianto di ospedali, di ospizi pei poveri e di brefotrofi, egli vorrebbe diffusa l’istruzione, incoraggiata la previdenza e promossa l’istituzione di casse di risparmio e di ritiro e delle società di mutuo soccorso. E in questo punto non mi sembra che il nostro economista si mostri pari all’altezza dei tempi, né d’accordo coi sociologi moderni; tanto più che egli ricerca le cause della miseria del popolo nell’imprevidenza, nel biscazzare e nella mancanza d’abitudine al risparmio, senza riflettere che certe paghe irrisorie, dovute a mancanza di organizzazione e di leghe di resistenza, sono appena sufficienti per un parco sostenimento giornaliero. Venendo alla quarta piaga, il Cirone, giovandosi degli studi dell’Afan De Rivera, passa in rassegna tutti i luoghi paludosi del Napolitano, dal lago di Fùcino e da Terracina alla valle del Crati e alle paludi della terra d’Otranto, di Bari, di Foggia e del Molise, enumerando tutti i danni che producono all’agricoltura e all’aumento di popolazione. Deplora la trista necessità della coltivazione dei monti, che è causa della formazione di frane e torrenti, e conclude che delle 24971 miglia quadrate del Napolitano ve ne sono 3 mila che restano quasi spopolate ed incolte, ossia più d’un ottavo della parte più ferace della superficie, che viene tolta all’industria agraria. Ora, calcolando l’annuo valore medio di rendita di ciascun moggio da 9 a 10 ducati, si avrebbe una rendita annuale da 27 a 30 milioni di ducati da quelle terre, dalle quali non se ne trae che un pajo di milioni. Passa in ultimo a considerare i danni che derivano dall’impaludamento dei terreni, a indagare le cause che li fanno mantenere paludosi, e osserva che: «Il volere che nelle sue presenti condizioni si prosciugassero tutti i sopradescritti terreni e si ponessero in coltura, sarebbe lo stesso che pretendere delle assurdità: la costituite bene la sicurezza della proprietà e della persona, guarentite il pieno sviluppo del libero scambio, aprite ottime vie di comunicazione, e voi vedrete da per tutto porsi mano a bonifiche, far verdeggiare di preziose frutta le campagne, inalberarsi i monti e i pendii, popolarsi le solitudini: estendersi il credito e l’istruzione in tutte le classi e rivolgersi nei più abbietti borghi un’immensa operosità». Al quesito se va meglio affidare al governo o lasciare all’industria privata le imprese di bonifiche, risponde che debbonsi lasciare all’industria privata, e il governo incaricarsi di incoraggiare e sussidiare le società che pigliano tali imprese. Accennando allo sviluppo che piglierebbe l’agricoltura prosciugandosi simili estensioni di terreno, conclude: «Queste sono le piaghe che più incancreniscono la prosperità del Mezzogiorno d’Italia, alle quali riesce della più grande importanza apportare dei subitanei rimedi, se si vuole il risorgimento di queste provincie tanto imbarbarite e depauperate da una secolare tirannide. A queste se ne possono aggiungere altre quattro, che le sono eziandio micidialissime, vale a dire la centralizzazione amministrativa, la mancanza di compiuta libertà commerciale ed industriale, la mancanza di credito ed un enorme debito pubblico accompagnato da un cattivissimo metodo di contribuzione, le quali non vengono da me svolte, perché saranno trattate ampiamente in un altro lavoro economico». Peccato che tale libro non sia più corretto in fatto di grammatica e di lingua! Un uomo cosiffatto non poteva dal nuovo governo d’Italia essere lasciato nel dimenticatojo; e però il Cirone viene assunto come impiegato nel ministero di agricoltura, industria e commercio. È però il Cirone viene assunto come impiegato nel ministero di agricoltura, industria e commercio. È così che inizia una carriera non meno splendida di quella del fratello, dedicando alla patria tutta la opera sua e ricevendo nelle gioje della famiglia la ricompensa alle sue diuturne fatiche. Egli infatti nel maggio del 1866 aveva sposato la virtuosa giovane piacentina Giulia Gioja, pronipote del celebre scienziato e pubblicista Melchiorre, che lo fe’ padre felice di numerosa figliolanza. Intanto della sua amministrazione percorse rapidamente tutti i gradi fino a quello di Direttore Capo Divisione, e, quando il 6 luglio 1893 venne a morte, stava per raggiungere il posto più elevato di Direttore Generale. Uomo integro, non altrimenti che gli altri due fratelli, amato e stimato da tutti, nel corso della sua carriera ottenne le onorificenze di cavaliere e la commenda di S. Maurizio e Lazzaro, e dall’estero la decorazione della Legion d’Onore dalla Francia e croci al merito dall’Imperatore d’Austria e dal re di Spagna.

Le opere pubblicate

  • Le piaghe che più incancreniscono la prosperità dell’Italia Meridionale, Napoli, Stab. Tipografico-Litografico dell’Ateneo, 1860.

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